martedì 9 settembre 2008

Conclusioni

Conclusioni

Quello che mi colpì di The Village fu la sua straordinaria capacità di trasmettermi un certo tipo di considerazioni fatte dal regista su argomenti di stampo politico come il potere, la delega sociale che ogni giorno viene perpetuata dal cittadino dello Stato, la difesa dei diritti civili e tutto ciò che riguarda quelle dinamiche di accettazione di un compromesso sociale, chiamato legge, che è strumentale alla vita e per la vita di una comunità. Molti infatti hanno parlato di “migliore trattazione di un film sul disagio del popolo statunitense in seguito ai fatti dell’11 settembre del 2001”. Lo stesso regista affermerà che è stato condizionato da quegli eventi nella stesura della sceneggiatura. Infatti vi sono alcune inquadrature nel film che vanno a supporto di questa tesi, come il continuo ‘mostrare’ le torrette di guardia ai confini del villaggio o la presenza costante di elementi come le campane. Se si prendesse isolata l’inquadratura della torretta, potrebbe tranquillamente essere messa a paragone con le torri di avvistamento delle basi militari in territorio ostile. Le campane invece sono facilmente riconducibili ai segnali di allarme, aumentati molto dopo l’11 settembre, che si attiverebbero a seguito di un azione ostile nemica, qualunque essa sia.
Sicuramente il disagio di una popolazione che ha subito un attacco alla sicurezza interna del Paese, avrà condizionato l’agire del regista. Sono convinto però che non volesse parlare di un fatto, seppur grave e di eco mondiale, circoscritto ai soli Stati Uniti, ma che volesse porre l’accento su come ogni tipo di comunità subisce ogni giorno abusi di potere da parte di uno Stato che governa sotto le mentite spoglie di Stato Sociale, Democrazia, Libertà di espressione e via dicendo. Ci dice esplicitamente, chiarendo la sua posizione, che è tutta una «farsa», in cui le vere decisioni non vengono concordate in sede di democratica assemblea (Sala Assemblee: consiglio anziani), ma si prendono tutte all’ombra delle istituzioni, al limite della legalità riconosciuta e con troppi segreti sulle spalle (Non è un coyote, Se non avessimo limitazioni?, Abbiamo fatto un giuramento, Dubbi degli anziani).
Questo secondo me è il punto di vista più generale utilizzato dal regista. Sicuramente il fatto di aver sempre vissuto negli Stati Uniti, ha fatto sì che le pieghe del suo racconto, o meglio della sua fiaba, si accordassero più facilmente a una realtà da lui percepita e vissuta, ma il voler dimostrare la fallacità del postulato «tutto quello che vediamo con gli occhi è reale perché tangibile di concretezza» dal lui brillantemente esposto, rientra nelle dinamiche di trattazione nel particolare di un discorso generale che è proprio di tutte le fiabe del mondo. In ogni cultura si saranno affrontate le tematiche proprie della favola di ‘Cappuccetto Rosso’, ma avranno altri nomi e altre forme. Cambiando la cultura di provenienza, il periodo storico di trasmissione della fiaba e attuando inconsciamente l’uomo i propri filtri personali, ecco che si possono avere due storie che trattano dello stesso argomento, ma con connotazioni diverse. Non è strano che il cinema, più del teatro, abbia ripreso il concetto di ‘fiaba’ tra le sue dinamiche di ‘trasposizione del reale’. La realtà percepita all’interno dell’inquadratura è solo una visione parziale di un sistema generale autosufficiente. E’ qui la genialità di sfondare l’artificiosità del dispositivo cinematografico, richiamando all’appello la vulnerabilità dello spettatore.
Ma secondo me, seppur reputo validissime tali argomentazioni, non è questo il significato ultimo della pellicola.
Ci sono molti dubbi che ancora ho su alcune inquadrature e alcune sequenze. Ho molte domande ancora che non hanno risposta, e sono consapevole del fatto che potrei non riuscire a sciogliere i nodi dei ‘perché’.
Perché fare il film? Che cosa si vuole raccontare? Che cosa vogliono dire tutte quelle inquadrature o quelle frasi che sembrano non avere motivazione narrativa, come la continua presenza di sedie vuote all’interno della storia?
Credo sia inevitabile porsi tutte queste domande, perché è plausibile e comprensibile da parte di un regista, voler trasporre su pellicola, il proprio flusso di pensieri su riflessioni riguardanti il mondo intero.
Posso provare a spiegare con la teoria quello che altri hanno fatto in pratica e posso anche tentare di dimostrare il livello artistico di un regista in base all’autorialità, analizzando la forma dei suoi codici di comunicazione e studiando questa forma in azione rispetto alle tematiche proposte.
Ma non posso leggere quei ‘segni’ che risiedono nel profondo di ognuno di noi. Questo per me è il significato dei film di Shyamalan.
Si può parlare di film politico, di ricerca di una realtà non apparente, di problematiche interpersonali che troppo hanno a che fare con la nostra vita che decidiamo di relegarle a fenomeni di prassi sociale, di fede religiosa verso un ente a cui dare o togliere responsabilità.
Possiamo parlare di tutto quello cui il film mira.
Ma solamente se mi metto a osservare i ‘segni’ che il mondo mi offre, posso guardarmi nel profondo, e, per dirla come i filosofi dell’antica Grecia, conoscere me stesso, magari sedendomi tranquillamente su una di quelle sedie che Shyamalan lascia vuote per chiunque voglia provarci. Come accade ad Ivy, che «vede il mondo» e lo scopre per quello che è, perché ne ha ‘visto’ i segni. E’ riuscita a conoscere se stessa e a decidere di tornare senza indugio nella realtà artificiosa del padre, in cui probabilmente può essere se stessa senza timore. Forse il concetto è già sentito, già visto, già archiviato, ma evidentemente interessa tutte quelle persone che come me, continuano a emozionarsi nel vedere l’ennesimo e scontato finale a sorpresa del film shyamalaniano di turno. Non è un caso che sia un concetto che funzioni e che sia perdurato nel tempo. Il problema è che alle volte ce ne dimentichiamo, delegando a uno Stato, a un capo villaggio, a un padre o madre, a un amore, a un’amicizia, a una superstizione o semplicemente a quello che ci viene detto di guardare da un insegnante, quel potere che stiamo dimenticando sempre più. Quello stesso potere che ci permette di capire e conoscere profondamente il Mondo, Dio e l’Universo, solamente guardando dentro noi stessi, con il punto di vista del mondo fuori di noi. E’ sempre la vecchia storia del ‘dito’ e della ‘luna’.
Sono convinto che in un dato momento della sua vita, forse di notte, Shyamalan sia riuscito a vedere la luna, forse anche solo per un istante e abbia visto qualcuno di quei ‘segni’. Che sia un sesto senso o l’incontro con una ninfa dell’acqua, spero che, al pari del suo personaggio scrittore di Lady in the water, non a caso interpretato da lui, i suoi film o più semplicemente il suo modo di vedere il mondo, possano influenzare il cammino di uno spettatore come hanno influenzato quello degli abitanti di un condominio con una ninfa dell’acqua nella piscina.
Il perché la scelta dei colori come punto di forza del film? Perché secondo me il film deve essere visto assolutamente con le stesse dinamiche con cui noi vediamo i colori. Ovvero tutte quelle dinamiche fisiche, psicologiche, sociali, simboliche ed emotive che aiutano a capire che il film non è solamente un’idea ben congegnata trasposta su pellicola, ma, per dirla con Ejzenstejn, è l’insieme di quella «orchestra compositiva» che genera ramificazioni in tutte le sue parti, portando le percezioni a non accontentarsi di ciò che vediamo e sentiamo, ma di considerare che «il tutto, non è la somma delle parti». Essendo il film un’opera d’ingegno collettivo, mi viene da pensare a come ognuno che abbia partecipato alla sua composizione, possa aver contribuito amplificandone ogni sua più piccola ramificazione. Credo infatti che i titoli del film possano aiutare anche in questo caso una lettura della questione. Infatti non solo i nomi degli attori e del regista si mescolano ai rami degli alberi, come a identificare un’interazione con essi e con il loro significato, ma anche i nomi dei principali capi sezione del cast tecnico, come la produzione, la scenografia, il montaggio e via dicendo, a rappresentanza di tutti coloro che vi hanno lavorato.
C’è da dire che il film pare avere un finale pessimista. L’enorme immaginazione di Shyamalan, la sua voglia di ritornare agli elementi del fantastico che tanto fanno sognare gli artisti, gli inguaribili romantici e non ultimi i bambini, sembrano però fermarsi di fronte alla sterilità e alla freddezza del mondo reale, fatto di gerarchie di potere e costumi sociali che tengono la testa ben salda sulle spalle, costringendo anche chi è loro accanto. La massima autorità che ci è presentata nel film, il capo dei guardiani, mette profonda angoscia per come è presentata. Innanzitutto è vista di spalle e se ne può intravedere il volto solamente riflesso in un vetro, come se tutto quello che rappresenta, spiegato fino ad ora, non sia facilmente identificabile e quindi non affrontabile, poiché non si può combattere un nemico se non lo si conosce. L’altra cosa, forse quella che conferma maggiormente il coinvolgimento emotivo del regista, è che il capo dei guardiani è stato interpretato da Shyamalan stesso. E’ nota la sua passione per la recitazione, ma non credo che nei suoi film egli si presti solamente come un elemento di cameo, ma che dia significato al suo ruolo di artista, tanto che in Lady in the water interpreterà un personaggio fondamentale, da leggersi con valore simbolico rispetto al suo essere regista. Di conseguenza, credo che il suo porsi al vertice massimo di questa farsa voglia dimostrare come nessuno di noi, anche una persona particolamente ispirata o con una sensibilità fuori dal comune, possa estraniarsi dal contesto della realtà. Tutti, nel bene o nel male, partecipiamo alla ‘grande farsa del mondo’ ed è quindi inutile e profondamente sbagliato rinchiudersi nelle proprie realtà, quelle che ognuno di noi si crea per difendersi da ciò che ci fa paura, da ciò che è fuori. I mondi fantastici, l’immaginario fiabesco, le favole stesse, non devono essere motivo di allontanamento dalla realtà in favore di un limbo esistenziale per la ricerca di una tranquillità sensoriale. Al contrario, servono per affrontare tale realtà con sempre più consapevolezza di se stessi e del mondo, per poter essere felici.
Questa visione assolutamente personale, un po’ poetica e forse troppo emotiva, secondo me aiuta comprendere come non sia importante leggere ogni piccolo particolare che l’artista ha posto all’interno dell’opera, perché ci sono troppi fattori che non è dato conoscere ed è giusto che noi non conosciamo.
Possiamo tentare di capire quali ingredienti segreti un grande chef ha utilizzato per rendere speciale una portata, ma non potremo mai conoscerne veramente le dosi, il momento in cui sono stati aggiunti, se qualcuno lo ha aiutato e così via. Possiamo conoscere i più stupefacenti trucchi di illusionismo di un grande mago, ma ci rovinerebbe il gusto e la sopresa di guardarli.
Possiamo solo cercare di dimostrare come vi sia forma della ‘contemporaneità’ di linguaggi (come il montaggio, la recitazione, l’uso del dispositivo cinematografico, lo sfruttamento della psicologia che investe lo spettatore, il colore, la drammaturgia ecc...), che sussista un’azione di messaggi ‘co-esistenti’ (come il messaggio sociale e politico, la ricerca delle emozioni dimenticate, i buoni sentimenti, i concetti come ‘potere’ e ‘servitore’ ecc...), ma non penso si possa dimostrare che le idee messe in atto nell’opera possano essere recepite da tutti i ‘decodificatori’ del messaggio. Il pubblico che ne fruisce ne può leggere una parte, ma non tutto, perché i codici e il gergo che vengono usati sono eccessivi e a volte molto complessi. Il regista, e in generale l’artista, cerca solamente di mostrare i risultati e le riflessioni del proprio cammino interiore di ricerca tramite la propria arte. Non cerca di imporre una ‘morale’ a cui il pubblico devono sottostare, ma, proprio come nelle fiabe, la mostra all’interno di una cornice personale di interpretazione.
L’opera di un’artista avrà quindi paternità autoriale nel momento in cui lancia un messaggio soggettivo e oggettivo allo stesso tempo, su più canali di comunicazione, per diversi pubblici e con diversa autorevolezza. Se viene data la possibilità intellettiva e intelleggibile di una lettura superficiale, ma anche di una lettura più approfondita, si avranno diversi livelli di comunicatività del messaggio che permettono una fruizione più vasta, andando a coinvolgere più pubblici diversi nello stesso istante. Ecco dunque l’intelligente strategia di Shyamalan di presentare uno stile narrativo leggibile sia dall’amante dei film horror e fantastici, sia da chi si ferma a osservare le pieghe più nascoste del tessuto narrativo del film.
Rimango quindi dell’idea che un film possa essere analizzato, studiato, scomposto, destrutturato, ma che non possa essere compreso fino in fondo.
Nonostante questo si può godere a pieno di tutto quello che si riesce a vedere, di tutti quei segni che si è disposti a percepire e di tutte le storie che vi sono raccontate.

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